ARTE O TRADIMENTO? Una riflessione sulla fotografia estetizzante
Foresta di Berignone, Toscana.
Foglie appese, Foresta di Berignone, Toscana. Canon EOS5D Mk III, ob. Canon 24-105mm f4.0.
17 novembre 2021, 12.04.27, ISO 800, lunghezza focale 105mm, priorità dei diaframmi, AV f8.0, TV 1/125, misurazione valutativa, One-Shot AF.



Secondo me le “banali foto di famiglia”
sono la quintessenza della fotografia.

Carlo Delli


Da qualche tempo e, confesso, con un certo disappunto, noto che la fotografia naturalistica viene interpretata dai suoi autori, soprattutto da quelli ritenuti più bravi, in modo sempre più estetizzante. Così, visto che estetizzante è definito l’atteggiamento di chi segue l’estetismo, sono andato a leggermi la voce relativa a questo termine sul dizionario Treccani:

estetismo s. m. [der. di estetico]. – In senso proprio, atteggiamento del gusto e del pensiero che, ponendo i valori estetici al vertice della vita spirituale, considera la vita stessa come ricerca e culto del bello, come creazione artistica dell’individuo.

Una definizione di grande interesse. In effetti questa voglia di estetismo sembra oggi molto diffusa tra i fotografi naturalisti e si coglie bene anche tra coloro che compongono le giurie dei concorsi, cioè tra quelli che nel mondo fotonaturalistico s’immagina occupino i posti d’onore.
Non credo occorrano troppe spiegazioni, basta guardare un po’ di fotografie, esplorando i siti web e i social network, studiare le opere premiate nei concorsi più famosi, per farsi una chiara idea della questione che vorrei affrontare.
Naturalmente non mi riferisco solo a certi grossolani interventi postproduttivi, per i quali qualsiasi fotografo appena smaliziato credo abbia ormai potuto sviluppare adeguate capacità anticorpali; per quelli anche i regolamenti delle competizioni più serie hanno creato limitazioni abbastanza efficienti. No, mi riferisco, ad esempio, all’uso sempre più spregiudicato del mosso e dello sfuocato o al tentativo, con artifici ottici e digitali, di gestire o creare luci improbabili, all’intensa manipolazione o reinterpretazione del colore, a certe bizzarrie compositive, all’ossessione per i grafismi e così via. Un terreno infido, perché molte sono cose che facciamo tutti e che in fotografia sono sempre state accettate senza troppi problemi. Io però, da qualche tempo, vedo una chiara tendenza a spingersi sempre più oltre, nell’intento, forse, di improntare una “nuova” (mi permetto di sorridere) estetica della fotografia naturalistica. Un’estetica che però allontana dal mondo proprio quella fotografia che più il mondo dovrebbe illustrare, anche nella non secondaria accezione di dar lustro, di onorare.
Tutto questo, a una prima valutazione di superficie, sembra nascere dall’ostinata ricerca della foto che impatta, dalla caccia all’immagine unica, spesso addirittura “strana”, che nessuno prima era mai riuscito ad ottenere, ma vedremo più avanti come invece il vero motivo sia in realtà un altro.
Sorvolerò sul problema delle nefaste dinamiche social, legate alla questione dei like e probabilmente corresponsabili nell’influenzare tendenze e mode. Sorvolerò, perché questo non m’interessa; m’interessa invece focalizzare alcuni fondamentali concetti di teoria fotografica e dimostrare, spero in modo comprensibile, come la spinta estetizzante, quando si fa troppo forte, rappresenti un tradimento della fotografia naturalistica, che può infine approdare addirittura al vero e proprio tradimento della fotografia in sé stessa, configurando un inganno, un tarocco, a volte ottenuto senza nemmeno utilizzare i software di postproduzione, in quanto creato già in fase di ripresa.

Ma torniamo alla nostra voce enciclopedica: la “ricerca e il culto del bello”, dice la Treccani e questo dovrebbe essere del tutto normale nella fotografia naturalistica, quasi scontato; dove si dovrebbe cercare il bello, se non nella natura? Perciò l’estetismo sembrerebbe connaturato alla fotografia naturalistica e non ci dovrebbe voler molto per ottenerlo: la bellezza è lì davanti a noi, basta inquadrare e scattare, perché spingersi troppo oltre, in un terreno di artifici? Abbiamo la meraviglia del creato, suppongo che dovrebbe bastarci.
Il vero nucleo della questione però non è questo, ma si trova invece nelle due parole che subito dopo aggiunge la prestigiosa enciclopedia: la “creazione artistica”. La chiave è lì, dentro l’annoso problema dell’arte in fotografia. Dunque il desiderio di esprimersi artisticamente spinge i fotografi verso l’estetismo? Io sono convinto di sì, che in molti casi si tratti proprio di questo: un semplice malinteso. Un malinteso che credo sia necessario analizzare e chiarire.
L’arte è comunemente definita come un linguaggio, capace di comunicare emozioni e messaggi ed è ormai acquisito che la fotografia faccia parte delle arti visive, come la pittura e la scultura ad esempio, ma per comprendere bene il terreno su cui ci muoviamo occorre esplorare un minimo la scienza dei segni.

La semiotica definisce come segno “qualcosa che sta per qualcos’altro, a qualcuno, in qualche modo; un sistema composto da un segnale, una referenza e un referente, che rinvia a un contenuto”.
I segni poi, citando e semplificando molto il pensiero del semiologo Charles Sanders Peirce (1857-1913), sono sostanzialmente di tre tipi: iconici, indicali e simbolici.

I segni iconici hanno un rapporto di somiglianza con ciò che rappresentano, come i dipinti o i disegni, che illustrano qualcosa di reale.

I segni indicali hanno un rapporto di contiguità fisica con il reale, come le impronte digitali, le orme o anche le fotografie.

I segni simbolici hanno infine un rapporto convenzionale con quello che rappresentano, come le bandiere o gli stemmi, ma soprattutto è simbolo la parola scritta.

Dando scontato che quando parliamo di realtà parliamo sempre di realtà visiva, è evidente che tra questi tre tipi di segni solo l’indice ha un rapporto diretto, non mediato, con ciò che è rappresentato; ecco perché la fotografia è radicalmente diversa dalla parola scritta (simbolo) e dalla pittura (icona), che sono sempre mediati dalla mente umana. Una montagna, stando chiusi in una stanza senza finestre, non si può fotografare, mentre la si può dipingere e disegnare a memoria o raccontare con la scrittura. Dunque la fotografia, essendo segno indicale, ha un legame particolare con la realtà e per di più nasce da un sistema tecnico in cui le possibilità d’intervento dell’operatore sono in fondo limitate, se non addirittura nulle (cosiddetto automatismo fotografico).
Ne consegue, ahimé con facilità, che la fotografia, nella sua essenza, sia tragicamente incapace di mentire.
Questa connaturata incapacità di mentire chiude il cerchio e spiega il “dramma” della fotografia: se essa non può mentire non è linguaggio, quindi non è atto culturale, dunque non può essere arte.
Ma come? Vi chiederete, non si era detto che la fotografia fa parte delle arti visive? Sì, certo, ma quello che conta e che occorre conoscere, se ci si vuole dedicare alla fotografia con un minimo di consapevolezza, è il percorso intellettuale, molto particolare, che si è dovuto seguire per poterla infine accogliere nell’agognata categoria delle arti. Dunque vediamolo.


 
Masai Mara, Kenya.
Terga di elefanti Loxodonta africana, Masai Mara, Kenya. Canon EOS5D Mk III, ob. Canon 400mm f4.0. 31 agosto 2012, 17.39.24, ISO 640, lunghezza focale 400mm, priorità dei diaframmi, AV f8.0, TV 1/1250, misurazione valutativa, AI servo AF.



Il problema nasce insieme alla fotografia stessa, probabilmente alla fine del diciottesimo secolo, ma è solo nel 1859 che il poeta Charles Baudelaire (1821-1867), commentando le opere di una mostra parigina, stabilisce con chiarezza, con parole addirittura tranchant, quali sono i motivi per cui la fotografia non può essere considerata arte.
Baudelaire afferma in primo luogo che l’arte vera è negazione della naturalità e che la fotografia, producendo una copia esatta di questa, non può che essere antitetica all’arte. Un brutto colpo, una vera cannonata; ma il poeta non si ferma lì e ci va giù ancora più duro, affermando che la fotografia è il rifugio (ahinoi!) dei pittori mancati, in quanto non richiede a chi la pratica quelle capacità tecniche e mentali che caratterizzano il “vero” artista. Una pietra tombale: Arte Fotografica R.I.P.
Ebbene, quello che più sorprende, dopo questa precoce inumazione, è che i fotografi abbiano reagito in modo opposto a quello che ci si sarebbe aspettati. Volendo in tutti i modi essere considerati artisti, i fotografi, invece di ricercare una strada originale che conducesse a un’autonoma e peculiare arte della fotografia, decisero di seguire sempre più le regole della pittura, cercando una strada per farla mentire. Nacque così un vero e proprio movimento di Fotografia Pittorialista, di cui fu grande interprete il britannico Henry Peach Robinson (1830-1901), a cui si deve l’invenzione e l’impiego di sofisticate tecniche di fotomontaggio, come si diceva allora. Un sistema tecnico che già permetteva di gestire, oggi diremmo in postproduzione, un’operatività quasi paragonabile a quella del moderno digitale. A definitiva prova che una vera rivoluzione digitale non esiste, mentre da più di due secoli, per fortuna, continua a esistere la fotografia. Non è un caso, dunque, che Robinson scrivesse, nel 1869, che “stratagemmi, trucchi e magie d’ogni sorta, sono leciti al fotografo, perché appartengono alla sua arte”.
E non è forse questo il germe di ciò che sta accadendo anche oggi? Ebbene sì, negli anni venti del ventunesimo secolo siamo ancora al pittorialismo.
Sembra incredibile ma il digitale, dopo la lunga parentesi legata alla grande diffusione della pellicola invertibile, che aveva tenuto la fotografia vicina (forse troppo) alla sua natura indicale, l’ha riportata indietro alla metà dell’ottocento, facendola ricadere nel gorgo pittorialista, nel luogo degli stratagemmi, dei trucchi e delle magie. Vada per le magie, visto che condivido l’idea di una natura “magica” della fotografia, legata alla sua particolarissima capacità di “fermare” il tempo; ma su trucchi e stratagemmi avrei qualcosa da eccepire.
Il grande Fritz Polking (1936-2007), all’avvento del digitale, parlò con una certa soddisfazione di un “ritorno al passato” messo in atto dalla nuova tecnologia fotografica, aveva ragione e ho subito condiviso la sua posizione, ma non credo che se oggi potesse vedere quel che accade, sarebbe ancora così contento.
Beh, direte voi, questione di gusti. Sì certo, ognuno è libero di seguire i suoi, ma io ritengo che in ogni circostanza della vita si debba ricercare un minimo di consapevolezza. Dunque, volendo spingersi davvero sulla via degli stratagemmi e dei trucchi, occorre sapere che c’incamminiamo verso un tradimento, verso il tradimento della natura più intima della fotografia che purtroppo, ci piaccia o no, resta sempre indicale.
Niente di irreparabile, certo siamo liberi e possiamo andare dove vogliamo, ma dovremmo essere consci che oltre certi limiti parlare di fotografia diventa difficile e occorre accettare l’idea che, pur continuando a usare una fotocamera, ci stiamo ormai dedicando ad altro.
Come non accorgersi, a questo punto, che per la fotografia naturalistica questa riflessione assume un valore centrale, una valenza assolutamente rilevante?
Se la fotografia in genere ha un rapporto di contiguità fisica con la realtà visiva, può la fotografia naturalistica pretendere di indebolire sempre più tale contiguità? Si tratta di una contraddizione in termini ma la mia risposta a quest’ultima domanda è naturalmente sì, purché sia chiara, a chi si avvia su questo percorso, la necessità di considerare anche un cambiamento terminologico, accettando di sostituire la parola “fotografia” con qualche buon neologismo. Il mio amico Carlo Delli parla di “immagini fotoprodotte” e credo sia una proposta degna di nota.
Dunque, tirando le somme del nostro ragionamento, sembra che anche oggi, con la scusa dell’arte, si voglia seguire la strada del pittorialismo: un rigurgito anacronistico, un ritorno a due secoli fa. Sorprendente, ma anche piuttosto sconfortante, perché risulta dimenticata la comparsa sulla scena artistica, agli inizi del secolo scorso, del genio Dada di Marcel Duchamp (1887-1968).
I dadaisti affermavano che si dovesse ricercare una contaminazione fra l’arte e la vita, sostituendo l’arte con la vita o, se volete, rendendo arte la vita stessa. Questa posizione svelò quasi subito inaspettate connessioni con la fotografia, mettendo in luce un chiaro parallelismo tra la poetica fotografica e quella del Dadaismo.
La fotografia essendo estranea al sistema tradizionale delle arti, non potrà mai essere uno sviluppo della pittura, alla quale anzi si contrappone; la fotografia, insomma, interpreta benissimo la spinta dadaista volta a sostituire l’arte con la vita e dunque si potrebbe affermare, senza tema d’essere smentiti, che la fotografia, seppure senza saperlo, è sempre stata dadaista.
Così, in pochi istanti, viene mirabilmente superata, anzi direi cancellata, tutta la secolare connessione-competizione con la pittura, perché la fotografia, nonostante le apparenti somiglianze materiali, non ha concettualmente nulla a che spartire con essa, collocandosi con orgoglio dalla parte del reale e rendendo arte il reale stesso.
Finalmente! Forse che i numerosi fotografi "neopittorialisti" dei giorni nostri dovrebbero rimeditare con attenzione il Dadaismo?
Il cerchio infatti si chiude con la comparsa dei ready-made, elaborati da Marcel Duchamp a partire dal 1913.

La Roue de bicyclette di Duchamp, primo ready-made della storia dell’arte, è composto da una ruota di bicicletta, fissata su uno sgabello di legno per mezzo della sua forcella. L’artista estrae dal mondo due oggetti di uso quotidiano e, senza utilizzare alcuna manualità, li esibisce direttamente, esibisce la realtà, apponendovi anche la sua firma, nella profonda convinzione che sia l’atto mentale dello scegliere, dello scegliere la ruota e lo sgabello, a fondare la sua opera d’arte.
L’analogia con la fotografia balza subito agli occhi, fotografia e ready-made basano la loro artisticità su criteri analoghi: la fotografia infatti richiama l'idea dell'icona ma, concettualmente, funziona come un ready-made.
Dunque l’arte del fotografo non è che l’arte della scelta, la scelta di una parte del mondo reale, quella parte di mondo che egli decide di collocare, a volte scegliendo anche di mentire, all’interno del suo fotogramma. Sembrerebbe semplice, anche se in realtà non lo è moltissimo, ma a distanza di più di un secolo dalla Roue de bicyclette di Duchamp, pare che ancora in tanti preferiscano dedicarsi a "dipingere con la luce".
Niente di male, io stesso sono un grande appassionato di pittura, ma se un giorno dovessi decidere di apprendere la tecnica dell’acquerello sarà mia cura dotarmi di pennelli e colori, non certo di una macchina fotografica.
Saluti dadaisti.



Questo articolo deve tutto alle mie opinioni e moltissimo a tre geniali testi di teoria fotografica, fondamentali, credo, per chiunque voglia essere fotografo con consapevolezza:

Claudio Marra
L’immagine infedele
La falsa rivoluzione della fotografia digitale
Bruno Mondadori Editore 2006

Claudio Marra
Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre)
Bruno Mondadori Editore 2012

Carlo Delli
La fotografia coincide con la vita umana?
Il rapporto infinito tra Energia e Materia
2021



Firenze, 27 marzo 2022



La Roue de bicyclette di Marcel Duchamp